La forma rivelatrice della propria identità.
Un progetto di vita, un oggetto espressivo di scelte e di controllo.

Nel mondo la paura più grande che affligge l’essere umano è la paura dell’opinione altrui. Nel momento in cui non avrai più paura della folla, non sarai più una pecora, diventerai un leone. Dal tuo cuore scaturirà un ruggito, il ruggito della libertà. 
- Osho

Per due volte i freddi uggiosi inseguono e inceneriscono le vivide stagioni, condannandomi alla fitta e corvina ombra di una selva di fantasmi, un ricordo assiduo di quanto la vita sia drammatica. 

L’immortale sentimento di angoscia graffia la mia esistenza e, l’ombra, dapprima innocente ed inerme, ora è un mostro che mi opprime, trasformando la mia vita in un naufragio esistenziale. Immersa nel mare delle mie lacrime e travolta dalla mia identità sfigurata, salpo verso Itaca, alla straziante ricerca del mio volto. 

Come la moglie di Moscarda, che gli fece notare la pendenza verso destra del suo naso, allo stesso modo, lo specchio mi spoglia delle ingannevoli maschere, rivelando il mio falloso nessuno. La mia realtà non mi appartiene.
Una brusca e inattesa scoperta che mi permette di avvertire la fluidità malleabile della mia persona. Il mio corpo si fa progetto di vita, oggetto espressivo di scelte e di controllo, forma rivelatrice della mia identità.
Il cibo diventa mezzo logorante con cui posso controllare il mio aspetto fisico, e tramite velenifero per giungere all’ideale di magrezza a cui tanto aspiro. Fronteggiarlo denota l’affermazione della mia autonomia, della mia sicurezza, del mio successo e, soprattutto, del mio controllo.
Genero il vuoto nel mio corpo emarginato: un possente deserto che, pervaso dalle sonore e marcate palpitazioni, non fa altro che amplificare il senso di disagio e di solitudine. Se prima lo stomaco ruggente era sintomo di voracità, ora diventa incarnazione della mia capacità di resistere all’altro.

Raggiungo la leggera libertà dei trentotto chili.

I valori di leggerezza e purezza, scaturiti dalla rigorosa penitenza e dalla consunzione del mio corpo, mi elevano verso l’alto, liberando la mia anima dalla pesantezza del miserabile corpo.
Abbraccio lo stesso destino delle Sante Anoressiche, e mi appresto all’unione mistica con il principio materno.
Come un burattino senza volontà, mi ritrovo nelle aspre mani di un destino potente e spietato. 
Ammiro il corrosivo riflesso del mio volto stanco e triangolare, il mio sguardo malinconico e rassegnato è sorretto dalle verdi occhiaie, la stessa tonalità del lividore letale che contorna la mia aggressiva magrezza; un sofferente e tormentato riverbero, in perfetto contrasto con i vividi corpi, custoditi nei principeschi sfondi di Klimt.

La mia stridente ombra suscita una sensazione di forte avversione in chi mi osserva, ma, allo stesso tempo, di morbosa attrazione. Il loro sguardo pungente alimenta la mia forza, arricchisce il mio potere e mantiene viva la mia determinazione.
Mi credo invulnerabile. Riesco a dominare il mio corpo, i miei impulsi e, soprattutto, i miei bisogni. Mi abbiglio delle limpide vesti della fermezza, consapevole di essere riuscita a liberarmi dalle catene della materia e di essere diventata oggetto di ammirazione.
L’originaria esaltazione si esaurisce fugacemente, mentre l’ossessivo bisogno di controllo e di certezza si insidia con prepotenza. Il pensiero è imprigionato nell’estenuante calcolo di calorie, chili, centimetri, grammi, chilometri…. Un martirio maniacale che restituisce il mio corpo all’opprimente dimensione umana di pesantezza e degrado.

“Ho tutto sotto controllo. Sto Bene”, è il meccanico prego che costantemente recito a mio padre che, simile a Caronte, traghetta la mia esile e dannata anima al cospetto dei sapienti. 
Con l’accettazione della malattia, l’onnipotenza crolla. Riconosco di essere un problema, 
e non più una persona. Ormai, mi relaziono alla mia identità unicamente in funzione del peso. Non voglio guarire.
Conseguentemente alle ripetute disfatte, approdo in un paesino che ha come simbolo il Puìnt dal Diàul. Timorosa di imbattermi nell’ennesimo istituto cinico e sordo, appena oltrepasso il portone tiglioso, un miracoloso tripudio di vibrante amore mi accoglie. Mi sento protetta. 
Il legame che viene ad instaurarsi non è il consueto rapporto dottore-problema, ma è un’autentica connessione straripante di sincere e floride emozioni. Questo universo fatato, in breve tempo, si evolve nel mio rifugio rassicurante, nella mia luminosa salvezza. 
Lo spirito ispiratore e celestiale, racchiuso nel rassicurante e distinto candore di uno chignon, percepisce in eredità le virtù di Dora Bassi e, con la florida parola, passa e ripassa ripetutamente il contorno della mia identità, sospendendo la mia immagine in uno stato indefinito, armonico ed enigmatico al contempo.
Sigillo nella consapevolezza questa catartica impresa attraverso l’emblema, lineare ma incisivo, della tragedia greca: una maschera gioconda che offusca l’amara realtà.

Se mi dovessi trovare davanti alla possibilità di scelta, in cui Morpheus mi sottopone al bivio delle due pillole, quella blu e quella rossa, escluderei, senza troppa esitazione, la realtà fittizia e illusoria, a favore della vita rossa e reale. 
Per quanto struggente ed estenuante sia stato il mio passato, non lo cambierei per nessun motivo al mondo. Queste cicatrici indelebili, che costituiscono il mio funesto patrimonio di esperienze, evocano ogni giorno la mia forza vitale, innalzando la persona che sono oggi. 
A volte, vale la pena essere curiosi, inseguire il Coniglio Bianco e precipitare nella sua viscerale e densa tana, per poi risalire la vetta, più forti e determinati di prima. 
La mia unica ambizione è essere felicemente libera. D’ora in poi voglio solo ruggire.
The Dark Side
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